lunedì 29 ottobre 2007


Prendendo spunto da una riflessione di Giulio Rupi, ingegnere e urbanista, sulle periferie urbane, mi sbilancio su un terreno che pure se non familiare comunque mi è a cuore. Sono certo che qualcosa non ha funzionato e continua a non funzionare nella pianificazione delle grandi periferie urbane. Tanti hanno provato a scriverci su, traendone diversi risultati. La mia opinione sposa parecchio la tesi del Rupi (leggasi avanti) e si basa non su considerazioni sociologiche: non è più l'uomo che vivrà quei luoghi a dettare le regole della pianificazione degli spazi ma sovrastrutture, categorie, protagonismi e monumentalismi. Non c'è ebbrezza più grande per chi si occupa di progettazione di spazi che lasciare il proprio segno, a imperitura memoria. Meglio se di cemento, inamovibile. Un piacere grande e superiore alla gratificazione economica che l'atto in se già produce. E non è questione di "bello" o "brutto", ma di sostanziale sordità al feedback dell'utente, più che convinti di poter dettare per esso le regole del buon vivere. Periferie nate così prima o poi scoppiano: sono luoghi da cui fuggire, meglio non nascere lì.
Preferisco la provincia, con le sue strade storte, i suoi quartierini asimmetrici e le case messe a caso.

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Le periferie urbane, un fallimento epocale
(di Giulio Rupi – pubblicato su Inarcassa 1/2006)


Bruciano le periferie di Parigi, ma anche in Italia c’è chi lancia l’allarme e teme analoghe reazioni di fronte al degrado delle nostre città: ecco allora che, inevitabilmente, insieme alle considerazioni sugli aspetti sociali del problema, tra le cause del malessere urbano si tirano in ballo anche gli aspetti materiali, cioè la conformazione fisica delle nostre periferie e le colpe di chi le ha così progettate.
Chi scrive si è confrontato fin dagli anni '60 con i molteplici fattori che hanno determinato il processo di costruzione delle città: l’insegnamento della progettazione urbanistica e architettonica nell’Università, una nutrita successione di leggi in materia di Urbanistica e di Edilizia Pubblica, il dibattito nazionale e internazionale degli addetti ai lavori, dal Modern al Postmodern alle polemiche sui “Maledetti Architetti”.
Ne ha tratto la convinzione che “tutto si tiene”, cioè che le teorizzazioni del Movimento Moderno, l’insegnamento del mestiere di progettista nelle scuole secondarie come nelle facoltà universitarie, la conduzione delle riviste specializzate, le scelte dei concorsi di Architettura, la mentalità dei funzionari pubblici, l’elaborazione delle leggi di settore e la loro applicazione nella costruzione della città, fossero tutti aspetti assolutamente correlati e consequenziali di un unico sistema culturale, forte e coerente, tuttora egemonico.
Di conseguenza pare improbabile che si possa far fronte al fallimento epocale nella costruzione delle periferie urbane utilizzando gli strumenti culturali di sempre, senza ripensare a fondo le teorizzazioni e i luoghi comuni che sono alla base di questo fallimento e che tuttavia si danno tuttora per scontati.
Eccoci allora ad enumerare alcuni degli aspetti di questo pensiero unico che “da sempre” hanno presieduto alla costruzione della città. La distruzione dello spazio urbano da spazio interno a spazio esterno: dagli “interni” delle piazze e delle strade dei centri antichi alla “Ville radieuse” degli edifici isolati in mezzo alla Natura. Le Corbusier disse testualmente (e coerentemente, dal suo punto di vista) che bisognava “distruggere i Centri Storici delle città europee” e realizzò quella “Unité d’abitation” che nella sua forza teorica è paradigma e premonizione di quello che sarebbe poi successo in tutte le periferie del Mondo.
Lo spazio urbano non è più un interno, quasi un prolungamento dell’abitazione, uno spazio amichevole di strade delimitate da edifici e di piazze come “salotti”; si sfrangia e diviene un esterno, un vuoto popolato di edifici isolati: questo è voluto e teorizzato, è coerente con quel pensiero unico. Le architetture divengono così monumenti isolati. In uno spazio di questo tipo ogni episodio architettonico è un monumento. Non si crea più un tessuto urbano di strade e di piazze, ma una serie di episodi architettonici in uno spazio non più strutturato. E’ voluto e teorizzato: in qualsiasi concorso vincerà tuttora non chi cerca umilmente di ricreare uno spazio urbano ma chi esibisce il suo particolare monumento di architettura.
Così l’Architetto diviene “Artista”, si distrugge ogni continuità con il passato, ogni regola d’arte trasmissibile e le Università sfornano ogni anno migliaia di progettisti che si affacciano al lavoro, ognuno con l’intenzione di diventare “un grande Architetto” e mettere la propria indelebile firma sul territorio liberando la propria disinibita fantasia di Artista.
L’abitazione, o meglio “la casa”, il luogo della famiglia, il luogo in cui si costituisce l’autonomia dell’individuo, diviene “macchina per abitare”, diviene “un servizio” per il cittadino, privo di ogni valore simbolico.
Così negli anni '70 si promulgano leggi per l’edilizia popolare che fissano parametri su parametri e costringono sia ad una progettazione omologata (i “quartieri della 457” tutti uguali e riconoscibili in qualsiasi città d’Italia) sia a scelte tecniche di bassa qualità, che portano gli edifici a un degrado veloce. E su questa filosofia si è teorizzata e praticata la cosiddetta “industrializzazione edilizia”, che funziona solo su interventi di grande dimensione e con progettazioni ossessivamente omologate.
Parallelamente a questo tutto il sistema si evolve in maniera che i meccanismi, le strutture che presiedono alla costruzione della città debbano accrescersi in dimensione e complessità.
Chi ha fin dagli anni '60 partecipato alla costruzione di case in cooperativa sa che in quegli anni le cooperative erano ancora costituite dagli stessi utenti finali che si costruivano l’alloggio “in prima persona”. In seguito, per la promulgazione di una serie di leggi sulle assegnazioni e sui finanziamenti, la gestione è passata a strutture di livello superiore, più grandi e complesse, ed oggi l’utente della cooperativa non differisce di molto da un qualsiasi acquirente del mercato privato. Così si è interrotto il confronto tra i progettisti e i cittadini, che era un tempo la caratteristica della cooperazione.
Perché infatti fondamentale e comune a tutte le diverse facce di questo unico problema è il rapporto paternalistico nei confronti dell’utente che è sotteso a questo sistema culturale.
Mentre per chi progetta un’automobile è fondamentale il gradimento finale dell’utente, per chi progetta la città è del tutto indifferente la verifica finale dei “consumatori”, il cosiddetto “successo di pubblico”. Vale solo il consenso interno a questo sistema, costruito sulle riviste specializzate, sulle cattedre universitarie e sui concorsi di progettazione.
Resta il fatto che l’altra faccia di questa medaglia, cioè dell’indifferenza alle reazioni dei consumatori, è proprio il degrado e l’esplosione delle periferie.
Così è più facile risanare con urbanizzazioni e servizi i quartieri abusivi costruiti in proprio dalla gente secondo un qualche criterio spontaneo, piuttosto che porre mano alla riqualificazione di alcune tristemente famose macrostrutture, i cosiddetti “mostri” realizzati nei PEEP dalla mano pubblica e subito rifiutati dalla gente che li ha condannati a un veloce degrado. Per questi edifici l’unica soluzione rimane la demolizione.
Ma allora, se “tutto si tiene”, se cioè questo sistema culturale assolutamente coerente e inattaccabile (non c’è a tutt’oggi concorso in cui possa prevalere un progetto ideologicamente estraneo a questo sistema) ha governato fin qui la costruzione della città ed ha prodotto questi risultati, come si può far conto che dal suo interno sorga la soluzione del problema, se non ci sarà prima un “cambio di paradigma” che ne rimetta in discussione tutte le premesse?
Un filo di speranza viene dagli Stati Uniti, dove si va facendo strada la corrente del “New Urbanism”, un movimento che, partendo dalla constatazione del fallimento della città americana costruita sulle teorizzazioni del Modernismo, ne ha rimesso in discussione tutti i postulati e guarda ai valori urbani dei Centri Storici europei. Così noi Europei rischiamo di attardarci nell’ultimo degli ismi sopravvissuti, il Modernismo in Architettura, mentre altri si ispirano per il loro futuro proprio a quei meravigliosi spazi urbani che la nostra cultura ha saputo costruire in passato.
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On air: Genesis - Fly on a Windshield (The Lamb Lies Down on Broadway)


giovedì 11 ottobre 2007

Squilli di tromba, gente: il Beppe torna a suonare!!!
Partivo dall'idea di raccontare questa rilevante novità che mi vede coinvolto (fuori dall'ambito lavorativo) a partire dal luglio scorso: il ritorno alla musica suonata. Ma presto mi son reso conto che per inquadrare meglio la portata dell'evento avrei dovuto raccontare un po’ tutto dall'inizio. Dunque ne è venuta fuori una sorta di …


… (auto)biografia musicale del Beppe.

"O fai una musica senza futuro, o non hai capito mai nessuna lezione"  



Leggenda vuole che sia nato sotto una radio a valvole Mivar. La musica in casa in casa di Beppe non è mai mancata: il nonno materno, ex-organista dilettante ma con gusto, apprezzava le strimpellate sul suo harmonium da salotto. A sette anni Beppe imita le note dello spot televisivo di "Vecchia Romagna" ed è subito oggetto di curiosità. Ma lui non gradisce queste attenzioni e molla la tastiera. Nel frattempo la radio si consuma alle note dei Beatles, The Who, Genesis, Pink Floyd, Yes, The Police, Supertramp, Dire Straits … L’occasione giusta viene più tardi, a 14 anni, quando presa in prestito una chitarra si iscrive ad un corso amatoriale di chitarra, tenuto da Antonio Da Costa. Vederlo suonare i ritmi della bossa-nova e del flamenco è la folgorazione. Da allora le sei corde iniziano a muoversi nelle sue vene. Poi Sandro gli dice: “Te che c’hai orecchio, aiutami a provare i pezzi di questo nuovo gruppo … tiè, ascolta questa, si chiama Sunday Bloody Sunday …”. Ricomincia così a imitare pezzi celebri e grandi successi: è la cover-mania. Non trascurabile è per Beppe il tempo dedicato al laboratorio di sperimentazioni elettroniche che nel frattempo si è allestito in soffitta, dove provare a creare suoni, analogici ovviamente, insieme al suo amico Gianni.  

Un sacco di spiccioli spesi a distorsori autocostruiti, flanger che si inceppano, amplificatori iperpotenti ma instabili, forme d’onda quadre e sinusoidali fino ad arrivare ad una vera chitarra elettrica e una vera band. Anno 1987 circa: nascono gli Eclipse. Mesi e mesi di prove rigorose con i fratelli Pasquale e Vincenzo (chitarra e tastiere), Massimo (batteria) e Gianni (basso elettrico, lo stesso Gianni di cui sopra) ed il battesimo del pubblico ad una festa in cantina, primavera 1989, dove Beppe e gli Eclipse sbalordiscono un centinaio di curiosi accorsi. 

Feste di contrada, Feste dell’Unità, spettacoli autofinanziati (es. un autoarticolato di 12m. piazzato, attrezzato e pronto per lo spettacolo in un solo pomeriggio): ogni bagno della folla è un'emozione che non ha prezzo. Massimo lascia il posto a Mario, Gianni prepara il matrimonio con Franca così la band nel 1991 diviene Empty Pocket Band, a sottolineare la cronica carenza di mezzi economici per sostentare questa sanguigna passione per la musica. 

Sotto la guida di Pasquale&Vincenzo è l'ora di un concerto tutto proprio: la Empty Pocket Band raduna oltre 500 spettatori al piazzale Indipendenza, sullo sfondo della splendida zona monumentale della città dei trulli. Beppe passa al basso elettrico, probabilmente il primo 5 corde che il paese dei trulli abbia mai visto (tale strumento attualmente troneggia in un grazioso appartamento a Copenhagen). Special-guest della serata è un duo molto springsteeniano, Topsy Turvy (Claudio & Ermanno), che si propone con pezzi originali e allaccia una collaborazione che porterà, con l’inclusione del pezzo “Tell me what is wrong” di Topsy Turvy & Empty Pocket Band nel CD di “Bari Stop-over 92”, la prima esperienza di Beppe come arrangiatore.  

La produzione di Beppe come autore è breve ma intensa: l'estate del '92 è piena di spunti melodici, riposti in una musicassetta a 4 tracce. Anche con la Empty Pocket Band, tra una sessione di prove e l'altra nascono idee per pezzi originali; artefice è Pasquale, geniale quanto basta, creativo e dalla tecnica perfetta. Le esibizioni con la Empty Pocket Band terminano nell'estate '94. Risale a quel periodo una piccola ma divertente esperienza che vede Beppe & Topsy Turvy in un inedito trio basso-chitarra-batteria: si esibisce solo due volte The New Erection's Style, con repertorio stile rockabilly.  

Gli impegni universitari incalzano ma Beppe ha ancora il tempo per un paio di esperienze musicali: baritono in una corale diretta la M° Giuseppe Matarrese (la stessa corale che vide l'esordio di una futura promessa della lirica, Luciano Mastro) e basso "a cappella" tipo Neri-per-Caso in quintetto con Christian, Clorinda, Mino e Valerio. Quest'ultima, occasionale formazione del '95-96 chiude un ciclo perchè Beppe ventottenne annuncia il suo ritiro dalle scene per un paio di buoni motivi: una laurea appena conseguita e il matrimonio con la bella Maria Grazia. Da allora, una grande, lunga parentesi dal mondo della musica suonata, per lasciare spazio al lavoro e alla famiglia. Arrivano loro, la vera musica: Martino e Cosmo. Di tanto in tanto, qualche strimpellata per i piccoli e una serenata in compagnia di amici con gli evergreen.  

Estate 2007. Dei ragazzi hanno voglia di suonare, manca il bassista ed una "session" riaccende in Beppe la voglia di imbracciare uno strumento.
A pochi giorni di distanza Beppe rivede Vincenzo, il tastierista degli Eclipse: poche parole e un invito ad ascoltare qualcosina allo studio di registrazione. Conosce bene quel posto, che rivede a distanza di 13 anni: la musica può fare giri molto ampi, ma alla fine ti riabbraccia. 


E infatti ad attenderlo sono loro, i tre fratelli, Vincenzo, Pasquale e Martino (batterista quest'ultimo, il più piccolo ma il più robusto dei tre!). Loro sono andati avanti con un progetto musicale originale, Bend Sinister, che ha prodotto due album autoprodotti: Bend Sinister – omonimo (1999) e Senza Mete (2007). Nei weekend liberi dagli impegni, in studio di registrazione per mettere a punto le tracce melodiche e ritmiche, affinandole con sovraincisioni e missaggi curati. Notevoli testi di Pasquale. Il paragone con i prodotti commerciali ben più celebrati è immediato: non c'è nulla di meno.
"Ma l'hai portato il basso, vero?", fà Vincenzo …