lunedì 10 luglio 2006


Me ne stavo a bordo campo, osservando i ragazzini nella loro partitina di fine corso. Un campo in terra battuta abbastanza grande per ricavare due campetti 7+7 e lo spazio per i riscaldamenti. Famigliole, nonni e zii, tutti ad ammirare i piccoli giocatori, gruppi colorati, uno per ciascun "mister". Premesso che di calcio non capisco un'acca, mi faceva un pò strano seguire la partitella con mio figlio tra questi. Al mio fianco un altro papà, più in là negli anni, brizzolato. "Eccolo, è quello là. Stessa passione del fratello, anche di più, forse." - Si, (rispondo) suo figlio e il mio sono anche compagni di squadra, a quanto pare. "Oggi avrebbe avuto ventuno anni, il fratello". E così comincia a raccontare.
"Era davvero promettente al calcio. Gli allenatori volevano proporlo per fargli fare una carriera professionale. Anche a scuola lo sapevano, che era un piccolo asso del calcio. Lui mi promise che non avrebbe trascurato gli studi, anzi, promise che avrebbe fatto qualcosa in grado di far sentire orgoglioso il padre. Oggi a pensarci, aveva ragione, perchè parecchi giornali parlarono dell'incidente e per diversi giorni.
Dopo quel giorno, mia moglie entrò in una profonda depressione, al punto tale che il dottore disse che forse non avrebbe concepito più figli. Comunque lui tornava nei miei sogni e prevedeva tutto ciò che si sarebbe verificato. Una insperata risalita della sua squadra del cuore (l'Inter) dal fondo del campionato, fino alla vittoria finale, i risultati delle partite e poi, un giorno un messaggio strano: Non temere, papà, consola mamma perchè io ritornerò." Mentre ascoltavo questa storia mi si accapponava la pelle e nello stesso tempo notavo la serenità di quest'uomo nel raccontarla, quasi fosse una storia qualunque. "Il messaggio che lasciò quella notte era questo: avrei avuto un figlio. Questa cosa era contro ogni logica perchè a mia moglie la terapia antidepressiva aveva mandato via anche il ciclo. Invece no: mia moglie attendeva un bambino. Ed eccolo lì, io ci credo nei sogni."


Una fredda sera dell'autunno 1996, un'auto fuori controllo per il fondo bagnato sbandando investe due ragazzini, di ritorno dalla scuola calcio. Lo stadio comunale viene intitolato a loro: una lapide affissa sulla parete accanto gli spogliatoi ricorda la memoria di Carlo e Giuseppe, 11 anni entrambi, amici e con la passione del pallone.

5 commenti:

utente anonimo ha detto...

E' una storia bellissima.
Ciao Beppe!

contevico ha detto...

Mio Dio, Beppe.
Che storia.
E che modo di raccontarcela.

almostblue58 ha detto...

da fare accapponare la pelle.

Ucalcabari ha detto...

bella storia davvero...ciao

Manroy ha detto...

Bellissima storia, soprattutto perche' e' vera.
Io credo che nella vita ci sia sempre una ragione per tutto, morte compresa.